La fatica ha un sapore. Un gusto. E un nome
Ci chiamano “gamberi”.
E questa storia non mi è mai piaciuta, sai. Solo perché avanziamo con le spalle alla meta.
La nostra imbarcazione spesso viene confusa con la loro, e la chiamano canoa. La mia barca.
Mi fa sorridere -e anche un pò irritare- poi, il genitore che ammonisce il figlio affascinato ed estasiato davanti ad un hangar saturo di barche a remi “No! Si chiama canoa!”.
Brrr, rabbrividisco. Come a sentire il rumore stridulo del gesso sulla lavagna. Te lo ricordi che fastidio?!
E poi dicono che dobbiamo imparare dagli adulti, ma spesso sono i bambini ad insegnare ai più grandi. Basta osservarli.
Le mie gambe gelano al freddo. Affaticate e stravolte. E anche un po doloranti. Mentre le loro se ne stanno al caldo a tenere l’equilibrio.
Canoisti e canottieri, amici e nemici.
Due discipline di acqua. Che tra loro hanno poco in comune. Almeno all’apparenza.
La fatica. E’ il collante che le unisce. Come parenti. Cugine può andar bene, come grado di parentela.
E mi stupisco quando scopro e conosco chi è la ghostwriter dei miei pensieri. Dei miei sentimenti. Delle mie paure e dei miei sacrifici.
La ghostwriter che racconta che sapore ha la fatica.
E’ lei a raccontarmi che “una barca che scorre bene, è una sensazione difficile da descrivere. Far scorrer la barca è un muoversi fluido e circolare. Efficace. Forza ma senza forzature.
Equilibrio non significa soltanto non cadere. E’ lo sforzo per tenere la barca nell’unico assetto che la fa andare veloce e leggera, per correggere quell’assetto ogni millesimo di secondo di qualche millesimo di centimetro, cercando di sentire cosa succede con i muscoli del bacino, i muscoli delle spalle e delle gambe, fino alle punte dei piedi nelle scarpette. Mentre l’acqua e il vento si muovono intorno a te.
Per far scorrer bene la tua barca devi fare tutto questo. E devi farlo senza starci troppo a pensare, perchè non è che uno pensa a respirare, o a sudare, o si mette a contare quanti muscoli del corpo muove quando solleva una pagaia, gira un voltante o abbraccia un bambino.
Ho provato tante volte questa sensazione. L’ho persa. Poi l’ho ritrovata. Ci ho messo una vita a capire esattamente come funziona. Per cercarla, fin dall’inizio, ho pensato che ci fosse solo un modo: lavorare. Lavorare di più. Lavorare sempre.
Ed il vero talento è il controllo delle energie“. Il colpo perfetto. The perfect stroke. Lo chiamano.
Nello sport come nella vita. Aggiungo.
Quel connubio perfetto tra forza e delicatezza. Tra potenza e tecnica. Che lancia la barca e la fa volare, contenendo al massimo la resistenza dello scafo sull’acqua.
Puoi raccontarne il gusto. Ma non puoi conoscerne il sapore. Finché non lo assaggi.
E me lo sento raccontare da una lontana cugina, se così posso definirla. Josefa. Bionda. Tedesca. Talentuosa. Longeva. E maestra di sacrificio. Lei che mi ricorda che i successi e le sconfitte son solo questione di metodo.
E di sacrificio.
Quella sostanza essenziale che ti permette un giorno di mettere insieme tutti i pezzi di un puzzle. Il più velocemente possibile. Senza pensarci. Senza sbagliare un colpo in acqua. Come quella visione d’insieme fosse un’intuizione.
“Metti a un certo punto, nelle gare, in allenamento e nei tornei della domenica che non sei più l’ultima”.
E ti accorgi che “vincere cambia tutto. Dà un nome e un senso alla fatica”.
E anche un gusto. Il cui ingrediente segreto è l’impegno quotidiano.
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