La supercompensazione e le sue falsità

Posted by Elena Casiraghi 10 Settembre 2016 0 Comment 6121 views

supercompensazione

Lui, il Professore, aveva un tratto fino e delicato quando disegnava i grafici. Mi affascinava come prendeva in mano la biro che quasi le dita erano imbarazzate ad afferrarla e un poco intimidite. Sembrava nel complesso che la mano a volte gli tremasse. Eppure appena la sfera carica d’inchiostro prendeva contatto col foglio, il suo tratto si faceva deciso. E mi lasciava d’incanto. Mi ricordava quei grandi aerei che guardavo un tempo a lato pista che prima di atterrare si inclinano su un’ala e sembrano in balìa dell’aria. Ti lasciano lì col fiato sospeso. Ma quando col carrello toccano terra, sicuri e decisi, ti fanno percepire tutto il loro peso e la loro potenza.

La stessa cosa accadeva coi suoi grafici.

E di grafici, di riflessioni parole e grafici ne avevamo prodotti innumerevoli prima di scrivere quell’articolo sulla supercompensazione e le sue falsità (Arcelli E. “La supercompensazione e le sue falsità. Scienza & Sport, pp. 54-57, n. 27, lug.-sett. 2015).

La parola stessa “supercompensazione” fa pensare da un lato che vi sia un compenso per la fatica (compensazione) e, forse, dall’altro, che tale compenso (super) sia tanto superiore quanto maggiore è stato il calo iniziale, ossia la fatica. Equivale, in un certo senso, al no pain no gain, vale a dire se non c’è fatica non c’è guadagno (prestativo). In entrambe i casi, del resto, si intende che c’è un compenso (un premio, un riconoscimento) per la fatica e che esso sia costituito da un miglioramento prestativo e che tale miglioramento sia tanto più ampio quanto maggiore è stata la fatica. In realtà, quando l’allenamento compiuto sia qualitativamente scorretto, vi può esser fatica ma senza incremento prestativo e non è detto che a una fatica maggiore corrisponda un miglioramento più ampio. Anche perchè il concetto di fatica è soggettivo come soggettivi sono gli stimoli dell’allenamento adatti a creare stress organico e quindi una risposta di adattamento da parte dell’organismo.

Ma l’aspetto più fortemente negativo è che il grafico “classico” della supercompensazione “abitua a pensare in maniera incompleta ai processi che avvengono quando ci si allena in quanto non considera i cambiamenti che avvengono nell’organismo e i tempi di “riassestamento” dell’omeostasi, ovvero i tempi di recupero, che oltretutto possono variare da atleta ad atleta a seconda delle sue qualità, del suo livello si esperienza e della caratteristiche fisiologiche e tecniche da sviluppare o già sviluppate.

Non per niente la “supercompensazione” è un’eredità della teoria sovietica dell’allenamento che nasceva negli anni ’50: allora i tecnici sportivi non sapevano nulla di fisiologia e i fisiologi non sapevano nulla di allenamento.

Il Prof. Arcelli era stato il primo (di sicuro in Italia) a fare da ponte tra i due mondi insegnando che per capire quale fosse il criterio migliore per allenare fosse necessario partire dalla conoscenza della fisiologia della specifica disciplina sportiva.

Oggi, prima di accettare quel legame causa-effetto, dev’essere considerato assai più razionale provare a comprendere se un determinato lavoro è in grado di determinare nell’organismo quegli adattamenti utili per il miglioramento della prestazione. Soltanto se viene trovato un legame di questo tipo ha senso prendere in considerazione la possibilità che quel mezzo possa aver un’utilità nel miglioramento prestativo e quali tempi e modi richiede a seguito della sua applicazione affinché nell’organismo possa manifestarsi una risposta di efficacia.

 

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